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Valentina Ok, se ne è andato un pezzo di cultura popolare di Napoli

DiChristian D'antonio

Set 9, 2014

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C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui il mondo musicale neomelodico napoletano aveva intercettato bisogni e ambizioni di un’intera generazione. Bollato come “sottocultura” e espressione di un’esagerata narcisistica idolatria popolare, nascondeva però, ovviamente, delle ragioni (e sentimenti, per parafrasarne un pezzo-simbolo) che a distanza di 20 anni stentiamo ancora a riconoscere. C’è voluto John Turturro, americano con ascendenze italiche, per vedere sul red carpet di un festival del cinema nostrano la vedette più in vista dell’epoca. Si chiamava Valentina Ok, voce e presenza scenica anti-tutto. Non era una drag queen, non era la diva fatalona, non era la cantante superba che si prende sul serio.

Niente di tutto ciò. Era semplicemente una figura popolare che popolava i pomeriggi delle tv locali degli anni 90. E con il popolo aveva iniziato un dialogo inizialmente diffidente, poi di asfissiante dipendenza reciproca. Impossibile sfuggire ai suoi programmi di richieste musicali all’epoca. Madri, figlie, nipotini e nonni imploravano al telefono canzoni e dediche. Solitamente per ammalati, carcerati o amori impossibili. Gag spontanee ed equivoci creati ad arte erano alla base della riuscita degli show improvvisati. Sì, quelli con la solita grafica-cartolina scalcagnata alle spalle e il numero da chiamare in sovraimpressione. Dire cult è un understatement. Ce ne fossero oggi di emissioni televisive di tale sublime onestà culturale, non si dovrebbe più andare a scovare i trend sui social network. Tutto quello che il popolo (napoletano, certo) voleva era racchiuso in quelle telefonate.

Tutto quello che Valentina poteva dare, dava. Canzoni a tratti imbarazzanti, ma quante lacrime e passioni. Uno spaccato unico di un’intera società che non sapeva che farsene degli imperativi comportamentali imposti da Roma e Milano. Il sub-continente napoletano (proprio come Bollywood in India, non è uno scherzo) si era creato il proprio riferimento fatto di starlette, abiti esagerati, giornaletti per ragazzine (esisteva, all’apice del filone neomelodico, Sciuè, la risposta napoletana al teen-magazine Cioè). È certo che il tesoro fu “scippato” quando Gigi D’Alessio, l’uomo dei record di incisioni e concerti ai matrimoni, divenne figura pubblica nazionale. Ma parte di quel tesoro è andato via anche qualche giorno fa, quando è venuta a mancare Valentina. A Napoli il travestitismo e il gender-blender, prima che si chiamassero così i fenomeni trendy importati dall’estero, sono sempre esistiti ma spesso lo si è voluto ignorare o etichettare come fenomeno di degrado. Ma quello che succedeva con Valentina era davvero qualcosa di nuovo. O’ femminiello aveva lasciato i vicoli della protezione sicura delle “vasciaiuole” e aveva raggiunto la legittimazione della tv. Tutta la sua carriera si è mossa sul perimetro dell’accettazione de facto della sua condizione. Anzi, si sbaglia a parlare di accettazione se a chiamare erano mamme che pubblicamente esortavano figlie a seguire i consigli e il bon-ton di un trans. Qui, inutile nasconderci, siamo nell’inclusione naturale di mondi che si abbracciano, si capiscono e si connettono.

Pure le vomeresi chiamavano, certo. L’alto e il basso, sociale e geografico, separati da una funicolare, confluivano (per scelta, non per moda) nei pomeriggi di Valentina. Che accontentava tutti, consolava con la musica e con poche sbavature ma molti strafalcioni linguistici, gli allettati e “quelli che avevano sbagliato nella vita”. Che è la sintesi dell’indulgenza tutta partenopea che si riserva ai malviventi. Rare le volgarità, c’erano i bambini, lo zoccolo duro dell’audiece (questo fenomeno nel fenomeno, poi, resta ancora un mistero non svelato). Per assurdo, Valentina funzionava meno quando intonava “Hey tu, ragazzo gay, ce la farai”. Per carità, grande coraggio nel decennio in cui non si parlava ancora di “outing” (siamo prima del world gay pride di Roma nel 2000). Ma la dichiarazione urlata, che senz’altro ha fatto bene a tanti pranzi domenicali di famiglie “all’antica”, metteva di fronte a un imbarazzo che non apparteneva al mondo di Valentina. Nel suo caso non c’era nulla da dichiarare, da rivendicare, da sottolineare. Il suo personaggio era talmente “donna” da non dover richiedere l’attenzione di nessuno. Piuttosto stravinceva quando parlava di indecisioni sul look da adottare per l’uscita serale con lo sposato di turno. O quando raccontava dei drammi d’amore che non erano ascrivibili alla sua sessualità transitoria. Erano i drammi di tutte le donne alle prese con un mondo maschile ante-metrosessualità (e anche su questi rimpianti, ci sarebbe da approfondire). Sembrano tempi lontani, ma, per chi non c’era, credeteci, era proprio così e per un pezzo degli anni 90, la Napoli post-bassoliniana era davvero avanti . Il fenomeno neomelodico e la mania per Valentina era così peculiare che solo alcuni attenti se ne accorsero a livello nazionale. Carlo Freccero la voleva in Rai, ma a quanto pare fu bloccato. Serena Dandini su Rai Tre ne “importò” la versione imitata dalla astuta Rosalia Porcaro alquanto esilarante. Tanto che gli spettatori del Nord pensavano che la Natasha della Porcaro fosse una presa in giro generica. Quando apparve poi l’originale (che si chiamava Valentina Ok, incredibilmente proprio come una sua hit) il gioco si rafforzò ancora di più. Ho visto “popolane” porgere neonati alla suddetta Valentina per farli toccare, in assolate mattine di spese nei mercati rionali.

Non era Madonna, certo, ma per molti il surrogato di una Madonna, sicuramente.
CHRISTIAN D’ANTONIO

Christian D'antonio

Christian D'Antonio (Salerno, 1974) osserva, scrive e fotografa dal 2000. Laureato in Scienze Politiche, è giornalista professionista dal 2004. Redattore di RioCarnival. Attualmente lavora nella redazione di JobMilano e collabora con Freequency.it Ha lavorato per Panorama Economy, Grazia e Tu (Mondadori), Metro (freepress) e Classix (Coniglio Ed.)